Questione di tempo e velocità

Mancano poche ore al lancio di Artemis 1, visibile in diretta QUI.
Il programma Artemis, da Artemide dea della caccia e della luna, posto in essere da NASA e varie agenzie internazionali, prevede il ritorno di Homo Sapiens sulla superficie del nostro satellite. Sulla rampa di lancio, domattina ore 7:04 italiane, dal Kennedy Space Center – Cape Canaveral, il vettore Space Launch System, SLS, condurrà la capsula Orion ad orbitare attorno alla luna e proseguire anche oltre al fine di verificare tutti i sistemi per procedere poi con il lancio successivo, questa volta CON equipaggio.

Il lancio di Artemis 1 è già stato rimandato varie volte, sia per problemi tecnici che per avversità meteo. Domattina la finestra dovrebbe essere buona e se così fosse avrà inizio la missione di circa tre settimane, che fungerà da apripista per Artemis 2 che prevede presenza umana a bordo. L’ultima missione lunare è stata quella di Apollo 17, nel dicembre 1972, poiché, al contrario delle sciocche credenze complottiste, l’uomo ha messo piede sulla superficie lunare per ben sei volte con un totale di dodici astronauti. Cinquant’anni dopo, con l’avvio del programma Artemis, la NASA spera di poter compiere un giorno non lontano il settimo allunaggio…

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Il primo allunaggio, si sa, è avvenuto il 20 luglio 1969 e poche ore dopo, già il 21 luglio, Neal Armstrong mise piede sulla superficie. Cinquantatré anni fa. E cinquantatré anni fa a guardare la diretta tv o stare col naso all’insù o comunque quaggiù, c’erano 3,607 miliardi di rappresentanti della specie Homo Sapiens. Eravamo un po’ di più di tre miliardi e mezzo. Cinquantatré anni dopo siamo più che raddoppiati.

Oggi, 15 Novembre 2022, siamo 8 miliardi.
worldOmeter

Tanti. Troppi. La Terra si salva da sola ed al momento non è questione di produzione di cibo anzi, ne produciamo più del necessario e lo spreco è allarmante. Il problema, uno dei tanti, è la distribuzione. Il sovraffollamento È un problema reale, di complicata e complessa gestione. Una delle conseguenze più drammatiche è il cambiamento climatico, figlio dell’impatto della nostra specie sull’ambiente. Il Global Footprint Network ha stabilito che il deficit ecologico del 2022 è stato a fine luglio, per l’Italia ancora prima. Il 15 maggio. Nel 1800 eravamo attorno al miliardo; nel 1900 invece 1.6 miliardi e per passare da 7 ad 8 abbiamo impiegato soltanto dodici anni. Un miliardo in dodici anni. Nonostante si continui a dire che dobbiamo fare ogni sforzo per fermare il riscaldamento globale a non più di 1,5 gradi, purtroppo siamo già oltre. La lunghissima ed estenuante estate anomala durata praticamente da febbraio a pochi giorni fa (con qualche pausa ad inizio e fine), è stata soltanto una delle tante che verranno. Le stime indicano una entrata in un periodo di rallentamento per poi raggiungere il picco attorno a fine secolo. Avremo tempo per trovare e mettere in pratica tecniche efficaci al fine di salvare la nostra presenza sulla Terra? Perché la grande sfida è questa, non salvare la Terra. Il pianeta si salva da solo, noi no. Il pianeta andrà benissimo avanti senza di noi anzi, le altre specie ne trarranno vantaggio. Non c’è alcun fine, alcuno scopo, non siamo qui per volere di alcunché. Per puro caso la nostra specie ha mostrato peculiarità che le hanno permesso di adattarsi all’ambiente, conquistarlo, modificarlo, sfruttarlo. E lo abbiamo modificato al punto da averlo reso sempre più inospitale per noi. E per le altre specie. Siamo la prima specie in grado di studiare sé stessa e tutto ciò che la circonda. Saremo in grado di trovare una soluzione per salvarci dall’oblio? I voli e le ricerche spaziali hanno utilizzo ed impatto anche nel quotidiano (avete un materasso memory foam? conoscete l’origine degli pneumatici radiali?), forse il programma Artemis non solo ci riporterà sulla Luna ed anche oltre, ma da esso potrà derivare quell’idea illuminante che ci permetterà di restare su questo pianeta per molto tempo ancora.

Rosa di sera…

Ieri mi sono fatta una bella passeggiata verso l’imbrunire ed il cielo mi ha regalato colori bellissimi…

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Sembrava di osservare un quadro. Eccezione per quei fili… 😒 Per alcuni minuti i colori sono stati accesissimi ed era un po’ strano, poiché sono giorni di forte umidità e colori spenti e grigi. E poi c’era la luna, ancora in fase gibbosa crescente. La luna piena è prevista per domani, martedì 8, e sarà anche eclissi lunare ahimè non visibile dall’Italia, ma online ci sono molti siti dove ovviare come ad esempio Virtual Telescope Project.

Una tazza di tè

È sempre l’ora del tè, e negli intervalli non abbiamo il tempo di lavare le tazze.

Bianconiglio aveva ragione. Ci sono tè diversi per diversi momenti della giornata ed anche per diversi stati d’animo. Dopo una giornata stancante o per una pausa rinfrancante, una delle mie coccole preferite è una tazza di chai.

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Masala Chai, letteralmente tè con misto di spezie (masala infatti è un mix di spezie usato nella cucina indiana), è una bevanda tipica dell’India conosciuta praticamente ovunque. Esistono preparati in bustine e sfusi per infusione, da aggiungere al mix di acqua e latte. Tra le marche migliori che ho provato c’è Vahdam, con una lunga storia alle spalle. Tuttavia, da gran amante delle spezie, non resto mai senza e le uso praticamente ovunque, mi piace preparare il chai da me. Non si dice chai tea o tè chai, dato che chai GIÀ significa tè. Ha origine dal mandarino chà e dal persiano chay; se volete approfondire l’etimologia, date un’occhiata qui.
Preparare una tazza di chai è davvero facile; non c’è una ricetta unica per il masala, come in ogni luogo esistono varianti da zona a zona. Dopo aver letto, guardato video, provato, la versione che prediligo prevede due tazze di acqua in un pentolino, su fuoco medio, a cui aggiungo 2 o 3 chiodi di garofano, un paio di pezzetti di zenzero fresco, 2 o 3 pezzetti di stecca di cannella, 3 o 4 baccelli di cardamomo verde pestati. Porto a bollore a fiamma viva, abbasso e mescolando ogni tanto lascio cuocere qualche minuto, affinché le spezie siano morbide ed abbiano rilasciato tutti i sentori. Di solito calcolo dai 4 ai 6 minuti, a seconda della intensità che voglio ottenere. A questo punto aggiungo un cucchiaino abbondante di Assam, tè nero coltivato nell’omonima regione storica indiana (a volte uso il Darjeeling, altro tè nero indiano, ma per il chai prediligo l’Assam) e lascio cuocere non più di due minuti, fiamma al minimo, poiché non voglio dar troppo accento al tipico sapore astringente. Trascorso questo tempo aggiungo un paio di cucchiai di latte, comunque non più di tre, faccio bollire alzando la fiamma e appena bolle spengo e allontano dal fornello. Lascio riposare un poco, con un colino filtro nella tazza e con calma mi gusto il mio chai.

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Un preparato, bustina o sfuso, è sicuramente più veloce ma il tè è un rituale, un momento di calma, di relax, una pausa zen…
Ieri nel primo pomeriggio soffiava un bel venticello che teneva il cielo limpido. I raggi del sole carezzavano i rami del mio alberello ed io me ne stavo seduta alla finestra, con il mio chai appena tolto dai fornelli ed in sottofondo il Concerto per Violino e Orchestra n° 3 di Camille Saint-Saëns (il movimento degli alberi imposto dal vento fa sempre risuonare nella mia testa il paradisiaco suono del violino…).
Un intenso momento zen.

Violin Concert n°3 – sec. mov. Andantino Quasi Allegretto

Questo post è stato, involontariamente, suggerito da Paola.

Mentre fuori piove…

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Piove. Ha piovuto poco tra ieri tarda serata e questa mattina presto, poi un po’ di tramontana, il sole, temperature in rialzo… e nel giro di mezz’ora, nel tardo pomeriggio, ecco l’arrivo di una seconda perturbazione che ha portato pioggia intensa, a tratti anche molto intensa. Così ho acceso la stufa nel cui fornetto ho messo a cuocere salmone e verdure.

Attendendo e cenando poi, ho ascoltato nuove puntate del podcast DOI – Denominazione Origine Inventata. Lo si può ascoltare su varie piattaforme, tra cui Spotify, Italia-Podcast, Amazon Music, Apple Podcast, Google Podcast.
Nato dall’omonimo libro, parla di cibo, ricette e la loro storia. Perché anche in un piatto di carbonara c’è Storia…


La carbonara è una ricetta americana, i tortellini bolognesi avevano il ripieno di pollo, il pomodoro di Pachino è stato creato in Israele. E ancora, fino alla metà del secolo scorso la maggior parte degli italiani non conosceva la pizza e in Sicilia il consumo di riso era pari a zero, con buona pace della disputa tra arancini e arancine. Insomma: i nostri prodotti tipici sono buonissimi, ma la loro storia è una bugia, raccontata più o meno a partire dagli anni ‘70. La ricerca storica quasi sempre smentisce le origini arcaiche delle nostre specialità culinarie, facendoci scoprire che molte ricette cui attribuiamo radici antichissime…sono in realtà invenzioni recenti. Con “DOI – Denominazione di origine inventata”, Alberto Grandi, professore di “Storia dell’alimentazione” e presidente del corso di laurea in “Economia e management” all’Università di Parma, e Daniele Soffiati, autore di libri dedicati al cinema e alla tv, vi aiuteranno a separare la verità dalle narrazioni pubblicitarie, ripercorrendo la vera storia della cucina italiana. Una produzione di Gabriele Beretta per OnePodcast

descrizione presa da QUI

Autore del libro è Alberto Grandi, mantovano classe 1967, presidente del corso di laurea in Economia e management all’Università di Parma, che tra i creduloni ed i vari consorzi ha creato un bel po’ di prurigine:

Mi indichi un piatto di sicuro italiano.
«È dura. Mi hanno crocifisso per aver scritto che le pizzerie nacquero in America, eppure fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada. Bravo il napoletano Raffaele Esposito a inventarsi nel 1889 d’aver ideato la Margherita in onore della regina d’Italia, giunta a Capodimonte con Umberto I. Negli Usa era un cibo per disperati, vivamente sconsigliato dai medici, al pari dei maccheroni».
Ma lei attribuisce agli yankee persino il Parmigiano, si rende conto?
«No, io dico che piaceva già a Boccaccio e che Napoleone mandò Gaspard Monge a Parma, affinché indagasse su un formaggio che si conservava bene. Solo che in questa città non c’erano le vacche da latte, per cui fu mandato a Lodi, da dove inviò all’imperatore un rapporto sul “fromage Lodezan dit aussi Parmezan”. C’è un buco di 150 anni, dal 1700 al 1850, nella storia di questo eccelso prodotto. Oggi si fa un gran parlare del parmigiano contraffatto, però fu alla fine del XIX secolo che comparve nel Wisconsin il tanto deprecato Parmesan, in forme di circa 20 chili e con la crosta nera. Chi lo produceva? Qualche casaro italiano emigrato là. Ne cito uno solo: Magnani. Un cognome molto diffuso fra Parma e Mantova. Soltanto nel 1938 spunta il primo consorzio di tutela del Parmigiano reggiano».

Intervista del Corriere -> QUI

Il libro è stato pubblicato da Mondadori nel gennaio 2018 e tra successi e lamentele ha avuto un enorme successo, tale da dar vita al podcast che ne è una interessantissima ed istruttiva costola.

Gli italiani hanno sempre la bocca fin troppo piena quando parlano della cucina italiana, ma raramente ne conoscono la Storia. Quella VERA.

Imperatore degli U.S.A.

Il 17 Settembre 1859 nell’edizione serale del San Francisco Evening Bulletin appare una lettera assai particolare.

At the peremptory request and desire of a large majority of the citizens of these United States, I, Joshua Norton, formerly of Algoa Bay, Cape of Good Hope, and now for the last 9 years and 10 months past of San Francisco, California, declare and proclaim myself Emperor of these United States; and in virtue of the authority thereby in me vested, do hereby order and direct the representatives of the different States of the Union to assemble in Musical Hall, of this city, on the 1st day of February next, then and there to make such alterations in the existing laws of the Union as may ameliorate the evils under which the country is laboring, and thereby cause confidence to exist, both at home and abroad, in our stability and integrity.
– NORTON I., Emperor of the United States.

«A perentoria richiesta e desiderio di una larga maggioranza di questi Stati Uniti, io, Joshua Norton, un tempo cittadino di Algoa Bay, Capo di Buona Speranza, e oggi e per gli ultimi scorsi 9 anni e 10 mesi cittadino di San Francisco, California, dichiaro e proclamo me stesso Imperatore di questi Stati Uniti; e in virtù dell’autorità in tal modo acquisita, con la presente ordino ai rappresentanti dei diversi Stati dell’unione di riunirsi in assemblea presso il Music Hall di questa città, in data primo Febbraio prossimo venturo, e lì procedere alla modifica delle leggi esistenti dell’Unione al fine di correggere i mali sotto i quali questa nazione si trova ad operare, e in tal modo ripristinare la fiducia, sia in patria che all’estero, nell’esistenza della nostra stabilità e integrità.
– Norton I, imperatore degli Stati Uniti»

Al Bulletin la pubblicazione viene fatta soprattutto con intento satirico, invece la pensa diversamente la popolazione. Norton I gira per le strade in una bella uniforme blu con tanto di bastone; parla con la gente, ascolta i loro problemi, dispensa consigli, controlla i cantieri soprattutto giù al porto. Inizia a stampare cambiali e pagherò che usa in negozi e ristoranti ed alcuni di questi li accettano pure. Scrive e firma vari decreti imperiali, tra cui lo scioglimento del Congresso, il licenziamento di Lincoln e del suo successore, l’abolizione della repubblica in favore della monarchia e l’abolizione del partito Repubblicano e Democratico. Scrive lettere anche alla Regina Vittoria, auspicando un loro matrimonio al fine di stringere i rapporti tra le rispettive nazioni. Nel 1867 una guardia privata lo pone in arresto con l’intenzione di farlo ricoverare presso una struttura sanitaria; un gran numero di cittadini si risente del fatto, arrivando a lamentarsi pesantemente. Il capo della polizia fa così rilasciare Norton I, il quale concede il magnanimo perdono. Da quel momento, i poliziotti che incrociano l’imperatore gli rivolgono un regale saluto. Il regno di Norton I dura 21 anni, durante i quali c’è anche un abbozzo di nominarsi Protettore del Messico quando Napoleone III lo invade nel 1862; nomina che viene revocata ben presto dallo stesso interessato. Ovviamente numerose sono le leggende che nascono attorno a questo eccentrico personaggio, tra cui quella che sarebbe un illegittimo figlio proprio di Napoleone III. L’8 Gennaio 1880, nei pressi della Old Saint Mary’s Cathedral, Norton I collassa sul marciapiede. Un poliziotto accorre, chiama una carrozza ma questa non giunge in tempo, poiché l’imperatore muore. Due giorni dopo, il San Francisco Chronicle titola ‘Le Roi Est Mort’.

Ma chi era, Norton I?
Joshua Abraham Norton nacque nel febbraio 1818 da una coppia di giovani inglesi contadini e mercanti di origini ebraiche. Alla tenerissima età di due anni, Norton, assieme ai genitori e moltissimi altri, fu a bordo della La Belle Alliance per raggiungere il Sud Africa durante le colonizzazioni del 1820. Della giovinezza poco è conosciuto, se non che lascia Cape Town probabilmente attorno al 1845 con in mano un buon lascito paterno. Nel 1849 giunge a San Francisco, entrando poi nel mercato immobiliare ed in quello dello smercio delle materie prime e la sua abilità lo portò, in pochi anni, a farsi un nome ed una buona posizione divenendo un cittadino prospero e conosciuto. Nel dicembre 1852, a seguito di un divieto di esportazione di riso della Cina, credette di fare il grande colpo: pensando che soltanto una nave giungesse dal Perù col prezioso cereale ne comprò l’intero carico con l’intento di ricavare una fortuna rivendendo il riso il cui prezzo era salito alle stelle. Purtroppo quella nave non era, ovviamente, da sola ed il piano di Norton crollò miseramente. Tentò vie giudiziarie, ma nel 1854 la Corte Suprema della California si pronunciò contro e due anni dopo dovette dichiarare fallimento. Dal 1856 al 1859 c’è qualche traccia, appare in una giuria e vive in una pensione in condizioni assai disagiate. Chi lo definiva eccentrico, chi disturbato, chi sempre più depresso e confuso in seguito al fallimento. Inizia a sentirsi scontento circa le strutture economiche, legali e politiche statunitensi e deciso ad iniziare un movimento atto a risanare queste ingiuste inadeguatezze, scrisse il Manifesto che inviò al San Francisco Evening Bulletin.
Norton morì in povertà ed il suo funerale venne pagato grazie ad un fondo istituito da una associazione, fondo a cui in molti aderirono. E moltissimi furono i curiosi che andarono a rendergli omaggio lungo il percorso funebre, seppur poi alla cerimonia al cimitero le persone in presenza furono un numero ben inferiore. Nel 1934 venne spostato in una tomba presso il Woodlawn Memorial Park Cemetery di Colma, California.

Reali Connessioni…

Fredericton è il capoluogo del New Brunswick, Nouveau-Brunswick in francese, provincia del cosiddetto Canada francese. Il nome della città, che al 2021 contava 63.116 abitanti (108.610 l’area metropolitana), deriva dal principe Federico Augusto di Hannover, Duca di York e di Albany, figlio di Giorgio III. Quest’ultimo, Re del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, con 59 anni e 96 giorni, è il monarca con il terzo regno più lungo di tutta la storia britannica. E ne fu anche il primo, poiché il Regno venne istituito con un atto nel 1800. Sotto il regno di Giorgio III ci furono le guerre napoleoniche, la guerra d’indipendenza degli Stati Uniti e l’inizio della rivoluzione industriale. E sempre Giorgio III è il protagonista del film The Madness of King George di Nicholas Hytner del 1994, con Nigel Hawthorne nel ruolo del Re ed Helen Mirren in quelli della Regina Carlotta. Giorgio, a quanto pare, sarebbe stato affetto da porfiria, un insieme di patologie per lo più ereditarie causate da accumulo di porfirine che attaccano il sistema nervoso (nel 2005 alcuni esami sui capelli hanno riscontrato una alta concentrazione di arsenico, portando così il dubbio che la pazzia possa derivare da intossicazione da arsenico).
Da buon padre (o forse no…) nominò il figlio Federico (secondo di ben quindici!) a rango di Colonnello dell’esercito britannico. E da buon (…) figlio, Federico venne inviato nelle Fiandre nel 1793 riportando una colossale sconfitta (perse in tre battaglie nel giro di un anno). Sei anni più tardi, nominato Comandante in capo delle Forze armate, Federico arrivò nei Paesi Bassi per unirsi al corpo d’armata russo; fu sconfitto dal generale Guillaume Marie Anne Brune nella battaglia di Castricum firmando la Convenzione di Alkmaar.
Rimpatriato, dietro una scrivania promosse riforme che, strano a dirsi, portarono enormi miglioramenti nell’esercito e vittorie contro Napoleone I. Dovette dimettersi nel 1809 a causa di uno scandalo legato alla sua amante, venendo poi tuttavia reintrodotto quando, in seguito a varie indagini, si scoprì esser stato vittima di un tradimento perpetuato dal suo accusatore e dall’amante stessa. Federico morì nel gennaio 1827 e fu sepolto nella St George’s Chapel del Castello di Windsor. Nello stesso luogo, presso la Cappella Commemorativa di Re Giorgio VI, il 19 settembre verrà sepolta Elisabetta II.

St. George’s Chapel at Windsor Castle

Nei pressi del St. James’s Park, a Londra, tra Regent Street ed il viale denominato The Mall, nell’aprile 1834 venne eretta la colonna monumento alla figura di Federico. A commissionare il monumento, l’intero corpo dell’esercito che mise insieme, membro dopo membro, la paga di un giorno per ordinarne la costruzione.

Duke of York Column

I territori dove attualmente sorge Fredericton, capoluogo del New Brunswick, erano abitati dalle tribù dei the Mi’kmaq e Maliseet, appartenenti al popolo delle First Nations, i nativi canadesi. I primi insediamenti dei coloni europei cominciarono nel 1692 con la costruzione di Fort Nashwaak. Nel 1783 nacque l’insediamento di Ste. Anne’s Point, fondata dai cosiddetti Loyalists (United Empire Loyalists), americani rimasti leali alla corona britannica. Ste. Anne’s Point divenne Frederick’s Town e nel 1785 cambiò definitivamente nome in Fredericton.

Fredericton

Al 411 University Avenue di Fredericton sorge il Lady Beaverbrook Rink, impianto sportivo dedicato principalmente ad hockey, pattinaggio artistico, ringette e pattinaggio di velocità. Nel maggio 1959 Johnny Cash si esibì proprio al Lady Beaverbrook Rink, durante un tour per promuovere il suo album d’esordio, Johnny Cash and His Hot and Blue Guitar!

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Ma non fu l’unica volta in cui Cash si ritrovò a Fredericton. Infatti, nel 1976 fu di nuovo al Lady Beaverbrook dove, nel backstage, incontrò l’allora principe ed oggi King Charles III.

Il confirmation bias, pregiudizio di conferma, è l’atteggiamento insito nella nostra specie a cercare e trovare conferme in ciò che crediamo di sapere, in nostre opinioni, giungendo così ad avvalorare (o cercare di farlo) convinzioni preesistenti. In questo inganno del cervello cadde anche Johnny Cash. Durante una intervista al Larry King Show, nel 2002, Cash parla di un sogno che gli ha ispirato il testo di una canzone. Nel sogno si ritrova all’interno di Buckingham Palace ed ha un incontro con Queen Elizabeth II.

“There she sat on the floor and she looked up at me and said, ‘Johnny Cash, you’re like a thorn tree in a whirlwind’. I woke up and thought, what could a dream like this mean? I forgot about it for two or three years, but it kept haunting me. I kept thinking about how vivid it was. I thought maybe it was biblical.”

Johnny Cash at Larry King Show

Johnny Cash è stato un uomo con una fortissima fede religiosa, tanto da divenire ministro. Ed il suo bias di conferma lo ha portato a trovare nella Bibbia il significato di quello strano sogno. Precisamente, il riferimento che Cash crede di aver trovato è all’interno del Libro di Giobbe e del Libro dell’Apocalisse. Il testo che questo sogno gli ispira diviene The Man Comes Around, scritta diverso tempo prima della pubblicazione avvenuta nel maggio 2002 e dal sound che mescola Gospel ed Alternative Country. La canzone si trova nell’album American IV: The Man Comes Around, parte di una serie ed ultimo pubblicato (novembre 2002) quando era in vita.

Hear the trumpets hear the pipers
One hundred million angels singin’
Multitudes are marchin’ to the big kettledrum
Voices callin’, voices cryin’
Some are born and some are dyin’
It’s alpha and omega’s kingdom come
And the whirlwind is in the thorn tree
The virgins are all trimming their wicks
The whirlwind is in the thorn trees
It’s hard for thee to kick against the prick
In measured hundredweight and penny pound
When the man comes around

The Man Comes Around

EP & The B

Ci sono incontri di cui poco si conosce e che rimarranno sempre avvolti in una famelica curiosità, oltre che nella popolare nebbia del mistero tranne che per i partecipanti. Come quello che avvenne il 27 agosto 1965 al 565 di Perugia Way a Bel Air. Il Colonnello Tom Parker e Brian Epstein organizzarono l’incontro, che avvenne nella serata di quello che era un venerdì. In testa alle classifiche USA e UK si trovava I Got You Babe di Sonny & Cher, mentre in Italia c’era Petula Clark con Ciao Ciao. Erano da poco nati il regista Sam Mendes e l’attrice Marlee Matlin ed era morta la scrittrice Shirley Jackson. Dopo venti mesi aveva avuto termine il secondo processo di Auschwitz, dove vennero condannate diciassette persone e presenziarono 358 testimoni. Il mondo girava ignaro di quell’incontro di cui poco si sa, non ci sono testimonianze video né immagini tranne POCHISSIME e non professionali. I Beatles, a Los Angeles per dei concerti durante la fortunata tournée statunitense, giunsero alla villa di Elvis attorno alle ventuno e la lasciarono tra le 2:30 e 3:30 della notte. Dopo un ovvio, e forse un po’ voluto, imbarazzo iniziale, Elvis prese il basso e iniziò ad intonare un pezzo di Charlie Rich. Così ebbe inizio una jam session tra The King of Rock ‘N’ Roll di Tupelo Mississippi ed i Fab Four di Liverpool.

“If you’re going to sit here all night staring at me I’m going to bed.”

Elvis to Beatles

Elvis was the thing, whatever people say, he was it. I was not competing against Elvis, rock happened to be the media I was born into – it was the one, that’s all.

John Lennon

Nothing affected me until I heard Elvis. Without Elvis, there would be no Beatles.

John Lennon

There was an advert for ‘Heartbreak Hotel’. Elvis looked so great: ‘That’s him, that’s him – the Messiah has arrived!’ Then when we heard the song, there was the proof. That was followed by his first album, which I still love the best of all his records. It was so fantastic we played it endlessly and tried to learn it all. Everything we did was based on that album.

Paul McCartney

Di tuoni e TV…

Il cielo borbotta, sempre più grigio e ombroso, forse scocciato pure lui da lunghissimi mesi di abbacinante giallo-blu. Ogni tanto una folata di venticello che scende giù dalle cime montane porta un poco di fresco, ma anche odore di pioggia. In alto i temporali si stanno già scatenando, quaggiù, in valle, qualche goccia fa fumare strade e campi asciutti e paglierini.
Nei giorni scorsi la pioggia, quella vera, è arrivata anche qui portando finalmente un po’ di refrigerio. La sera si sta meglio e al giorno le temperature non vanno oltre i 32/33º C. Forse il mostruoso, soffocante ed esasperante caldo africano ci sta salutando?
Lo spero…
Nel frattempo approfitto di questo nuvoloso pomeriggio per accendere il forno, dopo lunghe settimane di inutilizzo. Frullo, unisco, mescolo, spolverizzo, aggiungo… inforno. E mentre il dolce trascorre i canonici quaranta/quarantacinque minuti a 180º nel forno, termino la visione dell’ultima delle sei puntate che compongono la docuserie Una Squadra.

È la terza volta che la guardo ed ogni volta la trovo perfettamente confezionata. Andata in onda per la prima volta a maggio, sul canale Sky Documentaries e ora disponibile anche on demand e in streaming su NOW, composta da sei episodi da quarantacinque minuti ciascuno, la serie documentario racconta il prima e il dopo della squadra di tennis che nel 1976 vinse la Coppa Davis. Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli e la controversa figura di Nicola Pietrangeli, raccontano quel periodo con ironia, professionalità, nostalgia ed anche quel retrogusto dolce amaro che solo il vissuto della vita sa far conoscere. Non sono una esperta di tennis, mi piace guardarlo soprattutto alcuni eventi come Wimbledon e Roland Garros; lo trovo uno sport affascinante poiché è fisico ma senza l’intelligenza di un gioco mentale adeguato finirebbe con l’essere solo un tirarsi palline addosso.
Una Squadra ha ottenuto, giustamente, un enorme successo. Cinque personaggi forti, sicuri, comunque rispettosi, che raccontano il loro tennis inscenando una sorta di gag alla Sandra e Raimondo. Ma non è solo tennis, non è solo uno sport. Poiché nella vita tutto si intreccia, ecco che nella scena si inseriscono vicende sociopolitiche anche di livello internazionale, come l’apartheid ed il regime fascista di Pinochet. E proprio in Cile, nell’episodio sesto, viene raccontato l’incredibile lavoro del diplomatico Tomaso De Vergottini.

«Barattando col regime due prigionieri politici di rilievo come Victor Canteros e Ines Cornejo, con l’arrivo della nazionale a Santiago. La Russia, ad esempio, si era rifiutata per protesta contro le torture e le sparizioni di massa, di disputare una gara di qualificazione al Mondiale del’74 in Cile. In quella circostanza andò in scena la commedia della Fifa, con i cileni che segnarono un gol per validare l’incontro senza avversari e qualificarsi. L’azione di De Vergottini fu, forse, l’opera più importante della nostra diplomazia».

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Una Squadra racconta un episodio del tennis italiano all’interno della Storia comune che riguarda tutti noi. E lo fa con leggerezza ma rendendo giustizia ai personaggi principali, così come a tutto il corollario di storie e situazioni che in quegli anni hanno caratterizzato l’orizzonte sociopolitico. Una Squadra è una docuserie per tutti, non soltanto per gli appassionati di tennis proprio per come viene narrata, con un garbo ed una ironia che catturano riuscendo però a farci sapere qualcosa di un tempo non così lontano.

Il Ragno di Leonardo

Trovato il ragno uno grappolo d’uve, il quale per la sua dolcezza era molto visitato da ave e diverse qualità di mosche, li parve aver trovato loco molto comodo al suo inganno. E calatosi giù per lo suo sottile filo, e entrato nella nova abitazione, lì ogni giorno, facendosi alli spiraculi fatti dalli intervalli de’ grani dell’uve, assaltava, come ladrone, i miseri animali, che da lui non si guardavano. E passati alquanti giorni, il vendemmiatore còlta essa uva e messa coll’altre, insieme con quelle fu pigiato. E così l’uva fu laccio e ’nganno dello ingannatore ragno, come delle ingannate mosche.

Leonardo Da Vinci